Non c’è pace senza disarmo

di Franco Uda, responsabile nazionale Arci Pace, diritti umani e solidarietà internazionale

Anton Čechov scriveva: «Quando in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari». La celebre frase dello scrittore e drammaturgo russo ben si adatta a essere un serio elemento di riflessione per i nostri giorni, fuori da qualsiasi metafora. È infatti solo un’illusione pensare che le armi possano avere avere una finalità diversa da quella per le quali sono state pensate e realizzate, quella di far fuoco. È un fatto intrinseco nella loro natura ontologica. Da qui parte la riflessione che a Oslo ha certamente spinto il Comitato per il Premio Nobel per la Pace ad assegnare il riconoscimento per il 2017 a ICAN (International Campaign for Abolishing Nuclear Weapons), la campagna internazionale per l’abolizione degli ordigni atomici, portata avanti da decine di organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Un Nobel che premia un impegno quotidiano e capillare per il disarmo atomico come valore in sé e mette in chiara evidenza il disarmo come condizione necessaria per la pace. Altre sono state le fasi storiche in cui il potere deterrente degli arsenali ha – di fatto – cristallizzato pacificamente il pianeta. Oggi la follia ipertrofica di Kim Jong-un, leader dispotico della Corea del Nord, impone una escalation atomica e fa temere tutto il mondo per le possibili conseguenze, fino a far affermare all’ambasciatrice americana all’Onu che «ora la guerra è più vicina».
Il doomsday clock – l’orologio dell’apocalisse – che misura, secondo un gruppo di scienziati, il pericolo per la fine del mondo, continua inesorabilmente ad avvicinarsi alla mezzanotte. Dal Mar del Giappone al Mediterraneo il passo è però breve: la potente testimonianza degli Hibakusha – coloro che sopravvissero al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki – attraversa il mondo e giunge fino al mare nostrum, ormai caldissimo non solo per l’emergenza climatica ma anche per l’inestricabile coacervo di questioni che si tengono insieme, dai conflitti in atto alle migrazioni forzate. Dal conflitto israelo-palestinese – madre di tutte le questioni – la regione mediterranea è diventata uno degli epicentri mondiali delle crisi, con gravi ripercussioni nel rispetto dei diritti umani e nell’insorgenza di nuove forme di guerra asimmetrica. Anche qui l’enorme presenza di armi carica una bomba a orologeria che imporrebbe ben altra condotta ai governanti degli stati europei e della UE più in generale. Ma – si sa – una smisurata circolazione di armi significa soprattutto un grande affare nelle commesse internazionali e, in questa fase di crisi economica, il volano dell’export di armamenti fa fare spallucce ai Governi impegnati nella crescita del Pil e nella ricerca di un ruolo nell’accaparramento delle risorse energetiche e naturali di cui la regione è ricca. Così, in barba alla legge 185/90 che regola il commercio delle armi, il nostro Paese è in prima linea a foraggiare guerre nel Golfo di Aden, nella disponibilità a ospitare siti con ordigni nucleari e basi di addestramento di eserciti, nel destinare sempre maggiori risorse al riarmo. Ecco come la guerra entra nel bilancio dello Stato e diventa opzione politica, sottraendo risorse essenziali al welfare, alla sanità pubblica, all’istruzione. Per questo la pace non può che essere un progetto politico, per questo l’Arci sceglie la pace non solo come elemento identitario e della propria storia ma anche come asse portante del proprio programma associativo.


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