L’Arci aderisce e parteciperà alla manifestazione antifascista che si terrà il 9 dicembre a Como. Siamo infatti convinti che sia assolutamente necessario che le forze democratiche rispondano con fermezza ed unità ad ogni atto di provocazione di gruppi e forze che si richiamano apertamente al fascismo e al nazismo. A preoccuparci è anche il tema della qualità della nostra democrazia,perché risulta per noi evidente come la diffusione del fascismo sia correlato all’aumento della sofferenza sociale di parte della popolazione italiana, soprattutto quella che vive situazioni di marginalità. Non vanno in nessun modo sottovalutati le provocazioni, gli atti di stampo squadristico e xenofobo come quello recente contro ‘Como senza frontiere’. L’accoglienza, l’antirazzismo, l’apertura verso il ‘diverso’ sono valori che devono caratterizzare la democrazia e la civiltà di un paese. Per questo l’attenzione verso simili atti - che dimostrano come il sonno della ragione possa partorire mostri – deve restare alta. Contro questa stessa ideologia, contro gli orrori che ha determinato nel secolo scorso, ha combattuto chi ci ha preceduto. Il sacrificio di tanti e tante che hanno animato la Resistenza contro il nazifascismo, sconfiggendolo, ha permesso all’Italia di avere una delle Costituzioni più avanzate del mondo e un sistema democratico. Sta a noi ora difenderlo ed ampliarlo. Per questo saremo anche noi a Como. Roma, 5 dicembre 2017
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di Franco Uda, responsabile nazionale Arci Pace, diritti umani e solidarietà internazionale Anton Čechov scriveva: «Quando in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari». La celebre frase dello scrittore e drammaturgo russo ben si adatta a essere un serio elemento di riflessione per i nostri giorni, fuori da qualsiasi metafora. È infatti solo un’illusione pensare che le armi possano avere avere una finalità diversa da quella per le quali sono state pensate e realizzate, quella di far fuoco. È un fatto intrinseco nella loro natura ontologica. Da qui parte la riflessione che a Oslo ha certamente spinto il Comitato per il Premio Nobel per la Pace ad assegnare il riconoscimento per il 2017 a ICAN (International Campaign for Abolishing Nuclear Weapons), la campagna internazionale per l’abolizione degli ordigni atomici, portata avanti da decine di organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Un Nobel che premia un impegno quotidiano e capillare per il disarmo atomico come valore in sé e mette in chiara evidenza il disarmo come condizione necessaria per la pace. Altre sono state le fasi storiche in cui il potere deterrente degli arsenali ha - di fatto - cristallizzato pacificamente il pianeta. Oggi la follia ipertrofica di Kim Jong-un, leader dispotico della Corea del Nord, impone una escalation atomica e fa temere tutto il mondo per le possibili conseguenze, fino a far affermare all’ambasciatrice americana all’Onu che «ora la guerra è più vicina». Il doomsday clock - l’orologio dell’apocalisse - che misura, secondo un gruppo di scienziati, il pericolo per la fine del mondo, continua inesorabilmente ad avvicinarsi alla mezzanotte. Dal Mar del Giappone al Mediterraneo il passo è però breve: la potente testimonianza degli Hibakusha - coloro che sopravvissero al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki - attraversa il mondo e giunge fino al mare nostrum, ormai caldissimo non solo per l’emergenza climatica ma anche per l’inestricabile coacervo di questioni che si tengono insieme, dai conflitti in atto alle migrazioni forzate. Dal conflitto israelo-palestinese - madre di tutte le questioni - la regione mediterranea è diventata uno degli epicentri mondiali delle crisi, con gravi ripercussioni nel rispetto dei diritti umani e nell’insorgenza di nuove forme di guerra asimmetrica. Anche qui l’enorme presenza di armi carica una bomba a orologeria che imporrebbe ben altra condotta ai governanti degli stati europei e della UE più in generale. Ma - si sa - una smisurata circolazione di armi significa soprattutto un grande affare nelle commesse internazionali e, in questa fase di crisi economica, il volano dell’export di armamenti fa fare spallucce ai Governi impegnati nella crescita del Pil e nella ricerca di un ruolo nell’accaparramento delle risorse energetiche e naturali di cui la regione è ricca. Così, in barba alla legge 185/90 che regola il commercio delle armi, il nostro Paese è in prima linea a foraggiare guerre nel Golfo di Aden, nella disponibilità a ospitare siti con ordigni nucleari e basi di addestramento di eserciti, nel destinare sempre maggiori risorse al riarmo. Ecco come la guerra entra nel bilancio dello Stato e diventa opzione politica, sottraendo risorse essenziali al welfare, alla sanità pubblica, all’istruzione. Per questo la pace non può che essere un progetto politico, per questo l’Arci sceglie la pace non solo come elemento identitario e della propria storia ma anche come asse portante del proprio programma associativo. Con la legge di Bilancio, il MAECI ha istituito un fondo straordinario chiamato Fondo per l'Africacon una dotazione di 200 milioni di euro. Il fondo, anziché finanziare soltanto azioni in favore delle popolazioni africane in difficoltà, prevede stanziamenti consistenti per interventi di contrasto all’immigrazione e controllo delle frontiere. Parte di questi fondi sono inoltre transitati per i contenitore europeo dei Fondi Fiduciari, dando luogo a un sistema di vasi comunicanti – sia tra Italia ed Europa, sia tra ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione italiana e Ministero degli interni, sistema che rende difficile la tracciabilità dei fondi e il monitoraggio del loro utilizzo. L’esempio più esplicito è il fondo per il Niger: 50 milioni di euro che, transitando per il Fondo Fiduciario Europeo, vanno direttamente a rafforzare il budget strutturale di uno dei paesi più poveri al mondo. Con questi fondi il Niger s’impegna a creare nuove unità specializzate per il controllo dei confini e nuovi posti di frontiera. Una militarizzazione delle frontiere che obbliga i migranti a uscire dalle rotte abituali, aumentando il rischio d’incidenti e morti, trasformando così anche il deserto, come già il Mediterraneo, in un cimitero a cielo aperto Un altro esempio di distorsione delle risorse è quello della Libia, per la quale il MAECI stanzia 10 milioni di euro, gestiti dal Ministero degli Interni Italiano, che si aggiungono ad altri 2.500.000 euro destinati a finanziare la riparazione di quattro motovedette assegnate alla guardia costiera libica, responsabile di operazioni violente di intercettazioni e respingimento dei migranti in mare. Con la stessa logica 12 milioni di euro sono stati destinati al Governo Tunisino per acquisire mezzi di pattugliamento delle zone costiere (6 motovedette), un sistema di rilevamento delle impronte digitali, materiale di tele-radiocomunicazioni ed equipaggiamenti per il controllo marittimo e terreste finalizzati al contrasto del traffico di migranti e alla ricerca e soccorso in mare. È evidente che l’uso dei fondi allo sviluppo per attività di controllo delle frontiere, con sistematiche violazioni dei diritti umani, rappresentano una palese negazione del principio di “cooperazione e dialogo” volto a favorire il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in situazioni di disagio socioeconomico nel continente africane. Per questi motivi è urgente e indispensabile modificare la destinazione d’uso di queste risorse previste nella legge di Bilancio 2018, per assicurarne il corretto utilizzo per attività di cooperazione allo sviluppo, come previste dalla legislazione italiana ed internazionale. In allegato il documento di Arci e Arcs che verrà inviato al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Affari Esteri e a tutti i parlamentari: documento_su_Fondo_Africa.doc Roma, 24 novembre 2017 La Presidenza nazionale dell’ARCI aderisce alla manifestazione nazionale del 25 novembre indetta da Nonunadimeno a Roma (partenza piazza della Repubblica, ore 14.00) in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne.
La manifestazione di quest’anno mette al centro la risposta delle donne agli stupri e ai femminicidi quotidiani, alla violenza sessista nei posti di lavoro, alle molestie, alle discriminazioni e agli abusi di potere, allo sfruttamento e alla precarietà delle vite, ai ruoli di vittime o colpevoli che i giornali cuciono sui corpi delle donne e che i social media amplificano fino al razzismo istituzionale. Saremo a quella manifestazione, organizzeremo una presenza a Roma dai territori e, nei giorni precedenti e successivi, nei territori i circoli e i Comitati ARCI promuoveranno presidi, incontri e dibattiti su questo tema. Nei prossimi giorni lanceremo la campagna social “Contro la violenza alle donne nessuna incertezza”, anche alla luce dei tanti “distinguo” che in questi mesi abbiamo sentito a proposito delle denunce lanciate da tante donne, dal mondo dello spettacolo a quello dello sport, dalla politica, dalle mura domestiche rispetto alle quali troppi alibi vengono addotti a giustificare una violenza che giustificabile non è. Non vogliamo più che si descriva un fatto di violenza con un ”ma”: serve che l’opinione pubblica faccia fronte comune senza se e senza ma contro ogni violenza maschile alle donne. Per questo questa manifestazione, insieme alle tante che svolgeremo nei territori sarà anche quella delle donne che si sono riconosciute nel #MeToo – Anche io ho subito violenza per trasformarlo in #WeToogether – Noi Insieme e Unite possiamo vincerla. Per sconfiggere la violenza sulle donne serve un cambiamento culturale radicale, ma manca anche un piano programmatico efficace, condiviso sul territorio e non a macchia di leopardo, che vada dalla formazione nelle scuole sulle tematiche di genere, al finanziamento dei centri antiviolenza, molti dei quali sono invece costretti a chiudere per la mancanza di risorse. Sono quasi 7 milioni le donne italiane che nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. Uccise da mariti, fidanzati, spasimanti…ma anche vittime di uomini violenti, spesso per futili motivi. Sono numeri che ci dicono che si tratta di un fenomeno strutturale, troppo spesso condannato solo a parole ma tollerato nei fatti. A ciascuna delle donne uccise – una ogni tre giorni secondo i dati Istat - vogliamo dedicare il nostro ricordo, perché non vengano dimenticate. E alle tante donne violentate, maltrattate, vittime di stalking vogliamo far giungere la nostra solidarietà, anche scendendo in piazza. Lo faremo insieme a tante altre donne, in tutto il mondo, il 25 novembre e non solo. Ogni giorno continueremo a dire il nostro basta alla violenza e a una cultura che ci colpevolizza per farci percepire come complici, per negare la nostra libertà e il nostro diritto all’autodeterminazione. Perché la violenza maschile non ferisca e non uccida più. Qui il comunicato stampa Roma, 10 novembre 2017 La tragedia che si è consumata in pochi minuti davanti agli occhi dei volontari di Sea Watch è la drammatica dimostrazione delle conseguenze concrete dell’accordo tra Italia e Libia. La guardia costiera libica, con una motovedetta pagata dal contribuente italiano (visto le risorse che il nostro paese versa in base a quell’accordo), esegue, per conto del nostro governo, i respingimenti vietati dalla legge. Si commette - davanti agli occhi di tutto il mondo grazie alla denuncia di Sea Watch - e provocando una strage (50 persone morte in pochi minuti) un’azione illegale, perché vietata dalla nostra legislazione e da quella internazionale, ma la si affida alla guardia costiera di un paese che a quelle regole non si attiene, in modo che la responsabilità non venga ricondotta al nostro governo. Per fermare la strage bisogna bloccare l’accordo con la Libia, cancellare il codice per le ONG che di fatto ne ha impedito l’azione provocando un aumento dei morti in mare, ripristinare un programma pubblico di ricerca e salvataggio, come fu Mare Nostrum, aprire con urgenza vie di fuga sicure almeno per le categorie vulnerabili - minori, donne e persone con problemi sanitari - oggi ancora prigioniere nell’inferno libico o che in quell’inferno vengono riportate dalla guardia costiera libica. Senza questa netta inversione di marcia qualsiasi parola spesa a commento delle terribili immagini di quella tragedia non sortiranno effetto. L’accordo con la Libia, come quello precedente con la Turchia di Erdogan, riportano l'Europa ai suoi tempi più bui, quando, davanti alle migliaia di persone deportate, uccise, torturate per anni i governi europei hanno preferito fingere di non vedere. La vera emergenza democratica sta nel dilagante razzismo, che si alimenta grazie alla retorica di un’invasione che non c’è. Fermare subito le stragi, questa è l’unica vera emergenza. Roma, 10 novembre 2017 |
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